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Una vita come tante, di Hanya Yanagihara [“le vittime hanno sempre ragione?”]

Ho passato le ultime settimane a leggere Una vita come tante. È stata una lettura con intervalli di fatica, non per la storia, né per i temi, né per la mole del volume. Ma perché certe cose potevano andare meglio.

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Hanya Yanagihara, Una vita come tante

Titolo originale: A Little Life, traduzione dall’inglese di Luca Briasco, Sellerio, 2016, pp. 1104

La fotografia scelta per la copertina piaciona del libro è ormai popolare, ed è di Peter Hujar, Orgasmic Man (1969): l’indistinguibile smorfia scultorea di piacere-dolore è, secondo me, una scelta editoriale apprezzabile, che vuole bene e fa bene al libro.

Di Peter Hujar è stato scritto che nessuno ha mai fotografato la scena drag di New York come ha fatto lui: quella ritratta da Hujar è la Downtown di New York degli anni ’70 e ’80, popolata di artisti, scrittori, registi, musicisti, i creativi underground che, di solito, hanno qualcosa che me li fa amare e qualcosa che me li fa detestare.

Tutto bene, comunque, fin qui.

Mi sono avvicinata alla lettura di questo romanzo con lo stesso sentimento che mi aveva portato a leggere L’amica geniale di Elena Ferrante e cioè: «D’accordo, cerchiamo di capire cosa può piacere così tanto alle persone che lo hanno letto e adorato». Con L’amica geniale è stato semplice: mi ha incantato, l’ho adorato anch’io e non me lo aspettavo. Una vita come tante, invece, mi ha deluso e non me lo aspettavo.

In breve

Quattro amici ai tempi del college: Willem che vuole fare l’attore (e lo farà), Malcolm che vuole fare l’architetto (e lo farà), JB che vuole fare l’artista (e lo farà), Jude che vuole fare l’avvocato (e lo farà). La città dove il successo pare accessibile a chiunque (nei ritagli di tempo tra una festa e un vernissage) è New York.

Le storie dei quattro si dispiegano e si intrecciano attraverso quattro decenni di trionfi professionali e fiaschi personali, più o meno dagli anni ’80 a oggi.

Hey, Jude

Il vero protagonista, però, è Jude. La sua infanzia è più traumatica e irreparabile di ogni altra (ogni infanzia è irreparabile a modo suo): violenze, abusi, sevizie, autolesionismo, una costellazione di sofferenze indicibili – e indicibili rimangono, in effetti, per una buona metà del libro, perché il disvelarsi di Jude, della sua storia passata e della sua essenza danneggiata, viene taciuto, accennato, evitato, rinviato per qualche centinaio di pagine.

Nella prima lunga parte del romanzo, Jude pulisce casa, cucina, aggiusta le cose, parla poco e ascolta molto, studia, legge, conosce bene la matematica, sa cantare, e sopporta regolarmente dolori strazianti in tutto il corpo. Il corpo di Jude è martirizzato e disfatto, eppure ancora vivo nonostante le offese subite; una materia irriducibile come quella di un santo, di una qualche divinità, di un simbolo, una parabola, o una favola. Jude si dispiace di tutto e si scusa in continuazione con chiunque, è a tratti patetico, mentre i suoi tre amici cazzoni vivono la vita che possono vivere tre ragazzi americani nati complessivamente più fortunati di lui.

Bello, sì

Tenerissima è per me l’amicizia sicura che lega i quattro personaggi, attorniati da personaggi secondari e tutti uniti in una comunità che protegge e conforta, in un modo di essere famiglia che offre riparo e compassione, ironia e leggerezza. Rasserenante – sebbene poco verosimile – è la delicatezza con cui Willem, Malcolm e JB si occupano di custodire Jude e la sua fragilità con discrezione e riserbo, senza mai spazientirsi e chiedere: amico caro, ci vogliamo bene e ci conosciamo da anni, non ti vediamo granché in forma: vuoi dirci cosa diavolo ti è successo?

Bella anche, auspicabile, la fluidità dei rapporti e dei generi, affrancati da ogni definizione – amicizia, amore, sesso. Desiderabile, infine, la mite quotidianità di Willem e Jude da adulti negli anni più felici.

E però

Questo romanzo non va a stare fra gli scaffali della libreria in compagnia dei libri che mi hanno educato, modificato, toccato. Quando infine scopriamo cosa è successo a Jude, cosa cambia? Manca una frattura; la formazione di Jude, come anche dei suoi amici, resta in qualche modo incompiuta; il male della vita si reitera senza fine (così voleva l’autrice, si dice).

Cosa c’è di letterariamente eccezionale e stravolgente, nel dolore potenziato e senza speranza della vittima Jude? E il lettore, cosa se ne fa?

Di una moltitudine di disperazioni è fatta la letteratura – e molti romanzi efficaci scaturiscono da un disastro, da una zona oscura, dall’oscenità della vita, da un conto che non torna mai. Ma la storia di una vita come quella di Jude, che è una vita come tante, cosa promuove?

In letteratura, «Le vittime hanno sempre ragione?»

Leggendo di Jude, mi è venuto in mente il titolo di uno dei capitoli che compongono quel luminoso pamphlet che è Contro l’impegno di Walter Siti (Rizzoli, 2021). Il capitolo che ho in mente è il quarto e il titolo è: «Le vittime hanno sempre ragione?».

Eccone qualche mia sottolineatura qui e là:

La letteratura, ovviamente, ha sempre presentato vittime come oggetto di commozione […].

Ma l’ideologia della vittima, il vittimismo come genere letterario, sono nati non casualmente insieme alla modernità industriale, alle gazzette e agli albori della società di massa: sono le fanciulle vittime dei vilains nei romanzi settecenteschi, o i poveri e i neri nei romanzi umanitari dell’Ottocento […].

Oggi, nell’attuale situazione di una società tecnologica e finanziaria che sembra sfuggita di mano a quegli stessi che avrebbero dovuto guidarla, con conseguente smarrimento e assenza di risposte al “che fare?”, l’immaginario vittimistico è diventato predominante; l’Occidente, incerto sull’agire, si proietta nella figura della vittima che “non è ciò che fa, ma ciò che ha subito” [la definizione è tratta dalla Critica della vittima di Daniele Giglioli (nottetempo 2014), consigliato a chi voglia approfondire tutta la questione]. Sto parlando dell’immaginario, non dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi, dei profughi che esistono nella realtà; sto parlando di come la loro esistenza viene utilizzata per una visione sentimentale del mondo. Semplificando la complessità dei rapporti di potere nella coppia spettacolare vittima/carnefice, la compassione prende il posto della responsabilità e della lucidità razionale; la vittima mitologica è privata della sua interezza, del diritto all’errore e all’odio e (perché no?) alla mediocrità.

Walter Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli, 2021, pp. 155,156

Come scrive, la Yanagihara?

Non ho letto altri libri di Hanya Yanagihara. Il mio incontro con la sua scrittura si ferma a Una vita come tante. Che è un romanzo sulla capacità del corpo di sopravvivere, sulla crudeltà congenita degli esseri umani e sulla loro brutalità irrisolvibile.

Ci sono innumerevoli romanzi dove il corpo umano è luogo di violenza disumana. A fare di un romanzo quel che spesso si dice “un capolavoro”, però, credo sia l’eccezionalità della narrazione, una voce d’autore o d’autrice che non si dimentica più.

La scrittura di Hanya Yanagihara, io non l’ho intravista. Mi è mancata l’invenzione, mi è mancato lo stile, un piglio riconoscibile, una personalità credibile (sarà stato il risultato di una brutta traduzione italiana? Non sono in grado di giudicarlo). Mi è mancato, in tutta onestà, il romanzo.

Quindi?

Consiglio di leggerlo? Sì, perché ho bisogno che ci contiamo: in quanti siamo, a rinunciare all’opportunità di magnificare Una vita come tante?

2 Comments
  • Giulietta

    1 Settembre 2022 at 14:52

    Letto durante il Covid. Per me molto impegnativo, ho faticato non per la mole del libro ma per il dolore, il dolore che mi accompagnava nella lettura e trasudava dai racconti. E la bellissima amicizia, la tenerezza e l’amore che si incontrano leggendo non sono bastati a farmelo piacere. Forse già nella foto di copertina ho visto piacere procurato dal dolore. Non lo rileggerei ma è un mio limite presumo. Grazie per la tua magnifica riflessione sulla vittima in letteratura e per l’immagine mentale che sei riuscita a creare.

  • Annalisa

    1 Settembre 2022 at 15:15

    Ciao Giulietta, grazie a te per il tuo commento!
    Sì, si fatica a leggere “Una vita come tante”, e non per la sua mole – la quale in ogni caso, se il libro non fa innamorare subito, contribuisce a una percezione di peso generale.
    La riflessione sulla vittima in letteratura la si deve a Walter Siti (consiglio la lettura di quel libricino prezioso!), che mi frullava in testa mentre leggevo di Jude. Potrei non aver colto il pensiero di Siti, ma un legame c’è.
    Buone prossime letture!
    A.